I DOLORI DEL GIOVANE ZACH





Zach Condon ha solo 23 anni, eppure sembra sia sotto i riflettori da secoli. Talento prodigioso del sottobosco americano, verrebbe da dire, anche se poi, a ben guardare, nel sottobosco ci è rimasto davvero poco. Troppo fulminante il talento, troppo eccentrico il progetto e, di conseguenza, troppo clamoroso e debordante lo sconquasso mediatico prodotto dall’uscita di Gulag Orkestar, l’album di debutto di Zach immatricolato oramai 4 anni fa. Di strada ne ha fatta, nel frattempo, e non solo avendo riguardo al processo artistico. Viaggiare è sempre stato il suo fine ultimo, suonare il mezzo per riuscirci, ma la peculiarità di Zach sta nel fatto che per lui le due cose sono perfettamente intercambiabili, tanto da fondersi in un tutt’uno. La chiamano composizione itinerante, e lui fa la parte del genietto con la 24 ore sempre pronta all’imbarco. Io preferisco pensare che sia un menestrello come quelli di una volta, nato nell’epoca sbagliata di fronte ad un’audience perfetta, se capite cosa stia intendendo.
Tutto nacque quando il ragazzino Zachary “Beirut” Condon, fino a quel momento impegnato a pasticciare con i campionatori nella penombra della sua cameretta, subì in non meglio precisate circostanze le contaminazioni di certe sonorità balcaniche. Poi certo, il terreno su cui coltivare un progetto tanto ambizioso era particolarmente fertile. Ne uscì un disco che, ricordo distintamente, non si limitò a creare il solito, maledetto hype mediatico. Gulag Orkestar fece di più: destò scalpore. Nel mondo dello showbiz, dove orde di zelanti critici frigidamente arrovellati attorno all’ultima moda e sempre pronti a correre in soccorso al vincitore di turno impallidiscono di fronte a tutto ciò che è veramente, puramente e semplicemente bello proprio perché resiste agli standard di mercato, l’ellepì d’esordio di Beirut ebbe l’effetto di una secchiata d’acqua gelata presa in faccia durante una giornata d’agosto: spiazzante, certo, ma assolutamente gradevole e tonificante.
Zach è cresciuto, nel frattempo, sono passati quattro anni e una vita, dai tempi benedetti dalle sbronze di vodka e Bregovic. Di strada ne ha fatta, dicevamo, e gli va dato merito di non essersi fossilizzato su un canovaccio che molti  avrebbero ritenuto vincente per i secoli dei secoli. Lo smodato desiderio di esplorare suoni, culture, odori e colori di posti lontani lo ha in principio condotto in Europa, per un’immersione a capofitto nelle sonorità della Francia profonda e dell’Europa centrale. Il risultato contenuto nell’album The Flying Club Cup è lusinghiero, con momenti di grande musica, ma a parere di chi scrive meno spontaneo, più forzato e preso dalla smania di rispettare in modo pedissequo le influenze di turno rispetto al precedente lavoro. In quale dei due album si celava, dunque, la vera anima del signorino Condon? Un po’ tutti attendevano la risposta dal terzo pezzo del lotto, lo strombazzatissimo March of the Zapotec, una raccolta di canzoni che, in tutta franchezza, più che risolvere quesiti pone nuovi terribili interrogativi.
Un disco che poi, in realtà, non è nemmeno un disco. Trattasi di due Ep, uno completamente diverso dall’altro, in uno. Vale subito la pena dire che il supporto fonografico è l’unico elemento di coesione tra i due, per un esperimento che definirei spericolatissimo e solo in minima parte riuscito.
Ma andiamo con ordine. March of the Zapotec rappresenta la prima parte dell’opera e, mentre tutti si stanno per chiedere quale diavolo di direzione prenderà Zach questa volta, partono i caotici accordi di El Zocalo, sorta di introduzione al nuovo trip etnico di Beirut
Si, perché questa volta Condon vira sul Messico, quello più profondo e malinconico, e per rendere meglio l’atmosfera è andato a registrare ad Oaxaca de Juarez, nella Sierra Madre del Sud, una delle regioni più povere dell’intero Paese. Ad accompagnarlo nell’avventura ci sono i 19 elementi della Jimenez Band, combo orchestrale autoctono specializzato in musiche funerarie. Il risultato? Così così, francamente. Se il miglior episodio, la vibrante ed intensa La Llorona, è quello più vicino ai canoni del Beirut prima maniera, qualcosa vorrà pur dire. Il resto è contorno carino ma si sente che manca qualcosa, tra graziosi spunti strumentali (My Wife) e sentimenti profondi come la notte, anche se un pizzico troppo enfatici (The Shrew). Dopo mille ascolti, continuo a darmi le stesse risposte: caruccio è caruccio, niente da dire, ma un po’ troppo ampolloso e magniloquente, con atmosfere troppo spesse e i fiati onnipresenti che ogni tanto si sarebbero potuti tagliare.
La seconda parte del disco è occupata da un altro Ep chiamato Holland ed accreditato allo pseudonimo Realpeople, ossia il nick che Condon usava da ragazzino mentre pensava e scriveva elettronica minimale. E, per l’appunto, di elettronica minimale trattasi, un’elettronica piatta come il Brabante del Nord, senza spunti, fronzoli, idee, eccezion fatta per le graziose intuizioni melodiche che guidano l’iniziale My Night With the Prostitute from Marseille. Che sia una scelta scientemente ponderata a tavolino, quella di Zach Condon? Una prima parte che più pomposa non si può, una seconda raggrinzita come un ramo di basilico d’inverno. Così, giusto per trovare l’equilibrio. Francamente non credo. Credo, invece, che uno degli artisti più originali ed interessanti degli ultimi sei o sette anni avrebbe fatto bene a conservare le poche chicche di questo strambo lavoro e prendersi tutto il tempo necessario ad arricchirle con un’altra manciata di brani di degno livello. Zach ne sarebbe stato capace, è questo che fa rabbia. La bulimia, anche nella musica, è una malattia tremenda. Fortunatamente, anche nella musica, si può guarire. Coraggio giovane Zach, che il prossimo viaggio ti porti consiglio.

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